News  ·  14 | 10 | 2025

Come foglie al vento, come anime alla deriva: Alexandre Koberidze su Dry Leaf

Di Maria Sole Colombo

© Locarno Film Festival / Ti-Press

Un giallo sui generis, lirico e sognante; un inno spassionato all’estetica lo-fi. Col suo terzo lungo Alexandre Koberidze mette a punto la sua poetica dell’invisibile, confermandosi tra le voci più preziose del nuovo cinema georgiano.

Di solito quando si parla di un film si comincia dalla trama o dai personaggi. Ma la prima cosa che salta all’occhio, in Dry Leaf, è la pasta delle immagini, girate con una videocamera digitale a bassissima risoluzione. Il tuo film è una specie di inno all’estetica del pixel: come mai?
Nasce tutto da un telefonino che mi comprai nel 2009, prima dell’epoca degli smartphone. Era un modello Sony Ericsson, se ben ricordo, e l’avevo comprato per ascoltare la musica, ma poi avevo scoperto che faceva anche le foto. È stato con quel cellulare che ho cominciato a fotografare e girare i miei primi video – il cinema mi era sempre interessato ma fino a quel momento, per qualche ragione, pensavo che non sarei mai stato in grado di produrre immagini mie. Quelle foto però avevano una bellezza tutta loro, specie per l’illuminazione: era come se luce e oscurità si dessero battaglia. Ho girato un corto proprio con quell’estetica in testa e poi l’ho adoperata anche per il mio primo lungo, Let the Summer Never Come Again (2017).

A un certo punto sembri volerti perdere del tutto nelle immagini: non esistono più gli oggetti, ma solo le forme e i colori. Come se inseguissi un’idea di cinema astratto, pienamente sperimentale.
Il punto è che a volte, per poter veramente mostrare una cosa, sei costretto a cambiarla. Credo sia una caratteristica dell’arte in generale, non solo del cinema: per rappresentare ciò che vedi attraverso i tuoi occhi, e renderlo visibile agli altri, non puoi limitarti a descrivere o fotografare la realtà così com’è; è come se servisse una sorta di manipolazione, e per me l’estetica lo-fi di cui parlavamo prima serve esattamente a questo scopo.

Già in What Do We See When We Look at the Sky? (2021) emergeva fortissima questa tensione tra visibile e invisibile, occhio umano e occhio cinematografico.
In un certo senso si potrebbe dire che fare un film significa semplicemente scegliere cosa mostrare e cosa nascondere, cosa inquadrare e cosa lasciare fuori campo. Quando filmi con un telefono di quel tipo, alcune di queste decisioni sono prese a priori: tanti dettagli spariscono, rimangono solo i pixel. Il cervello dello spettatore è costretto allora ad attivarsi per ricostruire ciò che manca, ricomponendo un’immagine che è in parte svanita.

Col pubblico ti piace giocare, come il gatto col topo: Dry Leaf è la storia di due uomini sulle tracce di una ragazza, e quindi una sorta di detective story, ma una volta impostate le coordinate narrative è come se ti disinteressassi del tutto alla trama, sconfessando una a una tutte le regole di questo genere cinematografico. È così?
Sicuramente nelle premesse del racconto c’è quest’idea di detection, di svelamento di un mistero. Ma questo per me non è mai stato il punto fondamentale del film. Dopotutto, fin dalle prime scene, cerco di non calcare troppo la mano sulla suspence, e di non drammatizzare eccessivamente gli eventi. Il mio è un film che segue tante strade contemporaneamente, e la detection story è solo una di queste.

©Alexandre Koberidze, New Matter Films ©Alexandre Koberidze, New Matter Films

A proposito di strade: Dry Leaf è anche un road movie, no?
Sì, non solo per la storia che racconta ma anche per come l’abbiamo girato. Il viaggio dei due protagonisti è lo stesso che abbiamo fatto noi della troupe, in un certo senso: giorno dopo giorno cercavamo le location in maniera un po’ casuale, e poco dopo ci ritrovavamo in quegli stessi spazi per girare. Abbiamo esplorato varie regioni della Georgia: girovagavamo di villaggio in villaggio, e chiedevamo dove fossero i campi da calcio.

Il calcio, di cui mi dicono tu sia un grande appassionato, ha ispirato persino il titolo del film. Ce lo spieghi?
Certo! Negli anni ’50 c’era questo giocatore brasiliano, Didi, che aveva un modo tutto suo di calciare. Si era inventato questo tiro che poi qualcuno ha chiamato dry leaf, “foglia secca”, perché il pallone prendeva delle traiettorie del tutto imprevedibili: cambiava direzione e velocità in volo, e i portieri rimanevano completamente spiazzati. Un po’ come una foglia secca che cade da un albero, appunto, e che si trova in balìa del vento. È un concetto molto interessante, e ci ho visto innanzitutto delle similitudini con i protagonisti del mio film, che partono per un viaggio senza sapere bene quale direzione prenderanno. E poi, di nuovo, mi ha fatto pensare a come stavamo lavorando, a come fossimo preda delle circostanze intorno a noi. Ci siamo dovuti fidare, pur senza sapere dove saremmo andati a finire.

Questo film è solo l’ultimo di una serie di opere che stanno mettendo la Georgia al centro della mappa cinematografica mondiale – penso anche ai lavori di Dea Kulumbegashvili, o Levan Akin… Come mai questo rinascimento georgiano, proprio ora?
Trent’anni fa, col crollo dell’Unione Sovietica, la Georgia ha attraversato un periodo durissimo in cui tutto doveva essere ricostruito daccapo. Il cinema non era una priorità, ovviamente: prima si pensa al pane, e poi ai film. Col tempo il settore ha ricominciato a crescere, ma da alcuni anni a questa parte la situazione politica è di nuovo peggiorata, e ora più di 500 registi boicottano gli istituti nazionali di finanziamento pubblico al cinema. Se le cose non cambiano, purtroppo, i film georgiani saranno sempre meno.