Un giallo sui generis, lirico e sognante; un inno spassionato all’estetica lo-fi. Col suo terzo lungo Alexandre Koberidze mette a punto la sua poetica dell’invisibile, confermandosi tra le voci più preziose del nuovo cinema georgiano.
Di solito quando si parla di un film si comincia dalla trama o dai personaggi. Ma la prima cosa che salta all’occhio, in Dry Leaf, è la pasta delle immagini, girate con una videocamera digitale a bassissima risoluzione. Il tuo film è una specie di inno all’estetica del pixel: come mai?
Nasce tutto da un telefonino che mi comprai nel 2009, prima dell’epoca degli smartphone. Era un modello Sony Ericsson, se ben ricordo, e l’avevo comprato per ascoltare la musica, ma poi avevo scoperto che faceva anche le foto. È stato con quel cellulare che ho cominciato a fotografare e girare i miei primi video – il cinema mi era sempre interessato ma fino a quel momento, per qualche ragione, pensavo che non sarei mai stato in grado di produrre immagini mie. Quelle foto però avevano una bellezza tutta loro, specie per l’illuminazione: era come se luce e oscurità si dessero battaglia. Ho girato un corto proprio con quell’estetica in testa e poi l’ho adoperata anche per il mio primo lungo, Let the Summer Never Come Again (2017).
A un certo punto sembri volerti perdere del tutto nelle immagini: non esistono più gli oggetti, ma solo le forme e i colori. Come se inseguissi un’idea di cinema astratto, pienamente sperimentale.
Il punto è che a volte, per poter veramente mostrare una cosa, sei costretto a cambiarla. Credo sia una caratteristica dell’arte in generale, non solo del cinema: per rappresentare ciò che vedi attraverso i tuoi occhi, e renderlo visibile agli altri, non puoi limitarti a descrivere o fotografare la realtà così com’è; è come se servisse una sorta di manipolazione, e per me l’estetica lo-fi di cui parlavamo prima serve esattamente a questo scopo.
Già in What Do We See When We Look at the Sky? (2021) emergeva fortissima questa tensione tra visibile e invisibile, occhio umano e occhio cinematografico.
In un certo senso si potrebbe dire che fare un film significa semplicemente scegliere cosa mostrare e cosa nascondere, cosa inquadrare e cosa lasciare fuori campo. Quando filmi con un telefono di quel tipo, alcune di queste decisioni sono prese a priori: tanti dettagli spariscono, rimangono solo i pixel. Il cervello dello spettatore è costretto allora ad attivarsi per ricostruire ciò che manca, ricomponendo un’immagine che è in parte svanita.
Col pubblico ti piace giocare, come il gatto col topo: Dry Leaf è la storia di due uomini sulle tracce di una ragazza, e quindi una sorta di detective story, ma una volta impostate le coordinate narrative è come se ti disinteressassi del tutto alla trama, sconfessando una a una tutte le regole di questo genere cinematografico. È così?
Sicuramente nelle premesse del racconto c’è quest’idea di detection, di svelamento di un mistero. Ma questo per me non è mai stato il punto fondamentale del film. Dopotutto, fin dalle prime scene, cerco di non calcare troppo la mano sulla suspence, e di non drammatizzare eccessivamente gli eventi. Il mio è un film che segue tante strade contemporaneamente, e la detection story è solo una di queste.